Palazzo Falconieri è dal 1927 sede dell’Accademia d’Ungheria in Roma. In quanto tale, esso è l’immobile di maggior pregio dello Stato ungherese all’estero e, allo stesso tempo, caposaldo all’estero della cultura ungherese, di valore simbolico per gli intellettuali d’Ungheria.
Nel corso dei suoi cinquecento anni di storia il Palazzo Falconieri è stato più volte modificato, fino a trasformare un palazzetto rinascimentale nella sede dell’Accademia d’Ungheria in Roma, uno degli istituti culturali esteri più eleganti della Città Eterna. Sebbene ogni epoca del suo passato abbia lasciato traccia sull’edificio, l’impronta dell’ampliamento del Borromini è – sopra tutte – quella che ne determina la fisionomia attuale. In seguito alle numerose ristrutturazioni, le parti cinque-seicentesche sono sostanzialmente scomparse o hanno subìto alterazioni, sostituite talora da nuovi elementi architettonici o decorativi, mentre degli arredi e delle collezioni d’arte precedenti il XX secolo nulla è rimasto in via Giulia.
VISITA AL PALAZZO FALCONIERI
Arrivando dalla via Giulia, si nota immediatamente il prospetto principale dell’edificio, terso nelle forme e nelle proporzioni, che – se si prescinde da piccole integrazioni – è opera del Borromini, come rielaborazione e sviluppo della fabbrica cinquecentesca. L’architetto conservò la distribuzione originaria delle finestre e allungò la facciata per ottenere un prospetto simmetrico. Con l’ampliamento in direzione nord-ovest, consistente nell’aggiunta di un fabbricato a tre assi, l’edificio divenne un palazzo con facciata simmetrica a undici assi; l’inserimento di un secondo portale, tamponato, era anch’esso funzionale alla simmetria. Al piano terreno la muratura a bugnato, le finestre bramantesche a edicola di tipo toscano, e, al di sotto, finestre delle cantine di uguale larghezza richiamano, insieme al portale a bugnato rustico, il mondo formale caratteristico dei palazzi romani degli inizi del Seicento. Come abbiamo già indicato, la finestra con terminazione arcuata sul lato sinistro del piano terreno faceva anch’essa sicuramente parte del palazzo cinquecentesco, così come le tartarughe in metallo che sostengono le inferriate delle prime quattro finestre denunciano la loro appartenenza, insieme alle grate, alla fase costruttiva antecedente quella borrominiana (figg. 12 e 15). Il secondo e il terzo registro della facciata sono in tutto e per tutto opera del maestro ticinese. Mantenendo la ritmica del prospetto preesistente, egli realizzò un paramento murario in finto bugnato rustico, lo suddivise con cornici marcapiano e collocò un balcone su ciascuno dei due portali. La facciata è inquadrata in basso da uno zoccolo, costruito con pietre bugnate, e in alto da un cornicione nettamente sporgente e fortemente aggettante sugli angoli a mo’ di avancorpo; sui lati destro e sinistro, al livello delle cornici del primo piano, due pilastri angolari sono decorati ciascuno da un’erma con protome di falco.
Tra gli elementi decorativi si evidenzia l’accumulo dei simboli araldici, peculiare dell’arte del tempo: i prospetti interni ed esterni così come gli stucchi sono letteralmente invasi da falchi, presenti nel nome della famiglia Falconieri, e le protomi di falco delle due erme prendono vigorosamente possesso del palazzo e di tutto quel tratto della via Giulia. Borromini contrassegnò il portale cieco e i tre assi da lui edificati anche con elementi ornamentali: sulla mensola di sostegno del balcone sovrastante il portale appose un falco, invece del giglio (per la precisione un iris) della corrispondente mensola del balcone sull’ingresso, e inserì rosette nelle cornici delle tre nuove finestre del piano terreno. Il maestro ticinese, nell’accettare e accogliere il passato dell’edificio, non soltanto ne conservò l’eredità architettonica ma ne riprese i motivi decorativi, disseminando in vari punti della struttura i volatili allusivi ai Falconieri e, insieme, anche i simboli araldici dei precedenti proprietari. Tra le mensole del cornicione ripropose i motivi iconografici dello stemma degli Odescalchi: l’aquila, il leone e l’incensiere.
La soluzione planimetrica del palazzo celebra il genio del Borromini, che ideò una struttura sostanzialmente unitaria raccordando tra loro elementi risalenti a epoche diverse. Eliminata la pianta a U dell’edificio rinascimentale, trasformò l’ala destra, protesa verso il Tevere, inglobandone le parti più antiche e aggiungendovi ortogonalmente sulla destra un’altra ala, parallela al fiume e al prospetto principale. Questo fabbricato si estende parallelo al prolungamento del prospetto principale in direzione nord-ovest, vale a dire che un’altra costruzione con pianta a U si addossa perpendicolarmente all’ala precedente.
L’attuale portale del palazzo, che ne è al tempo stesso l’ingresso principale, risale al XVI secolo, sebbene nel primo edificio funzionasse come un vano più grande, e l’accesso all’interno avvenisse attraverso il portale che si apriva dove oggi è la portineria. Borromini trasformò l’atrio e il portico del piano terreno conservando le preesistenze cinquecentesche: l’atrio è coperto a botte lunettata, mentre delle tre campate del portico la centrale presenta una volta a vela, che richiama un baldacchino, sostenuta da quattro colonne in granito rosa, e sulle due laterali si innesta una crociera nervata. Le sei colonne in granito di origine antica, con capitelli toscani riscalpellati, erano di reimpiego già nel palazzo del XVI secolo.
A destra dell’ingresso, negli ambienti di fronte alla portineria possiamo individuare i segni ancora visibili del palazzo cinquecentesco, in parte nella forma trasfigurata dal Borromini. Sotto questo aspetto particolarmente importanti sono le coperture delle sale che attualmente compongono la galleria espositiva per le mostre. La prima sala presenta una volta a botte lunettata. La seconda è coperta da una volta a specchio, impostata su una cornice decorata a ovoli che corre tutt’intorno lungo le pareti; risalgono al XVI secolo anche le soglie degli sguanci delle finestre. Al centro della volta una cornice in stucco del Borromini, riccamente profilata, inquadra l’unico affresco originario ‒ commissionato dalla famiglia Odescalchi ‒ del palazzo, raffigurante Apollo che suona la viola da gamba sul monte Parnaso con le sette muse e, in primo piano, due poeti con in capo la corona d’alloro, Virgilio e Dante. Secondo István Genthon e Gianluigi Colalucci il dipinto è da assegnare alla scuola dei fratelli Zuccari, pittori manieristi attivi a Roma; secondo altre opinioni sarebbe invece opera di Baldassare Croce o Salvio Savini. Il medaglione ovale realizzato sulla volta a specchio della terza sala è incorniciato da una ghirlanda d’alloro, falchi con le ali spiegate aggettano dai triangoli di risulta delimitati dalla cornice esterna rettangolare e nelle estensioni, simili a punte di lancia, agli angoli del rettangolo Borromini pose i gigli dello stemma della famiglia Farnese, nel segno di quella stessa concezione della storia per la quale inserì i leoni dello stemma Odescalchi sotto il cornicione esterno della facciata.
La volta del quarto ambiente (utilizzato attualmente come magazzino della galleria espositiva) non è visibile. La sua decorazione a stucco, in parte danneggiata dall’inserimento delle lampade e di un controsoffitto montato in maniera grossolana, può essere accostata all’analoga ornamentazione in stucco a motivi vegetali delle due sale del Borromini al primo piano. L’artista vi modellò rosette, palmette e fiori stilizzati aderenti alla superficie, rivolti perpendicolarmente verso l’esterno rispetto alla cornice rettangolare in stucco riccamente profilata collocata al centro della volta a specchio: sono gli stessi motivi decorativi vegetali che ornano al piano nobile le due sale borrominiane minori. Al piano terra si rinvengono ulteriori tracce costruttive risalenti al XVI secolo: la mostra in calcare travertino della porta, tamponata, nel corridoio che conduce verso la scala posteriore e la grande sala (attualmente magazzino della biblioteca) coperta da volta con testate di padiglione e lunette situata rispetto alla scala posteriore sul lato verso il fiume.
Il cortile d'onore
Una delle parti più notevoli del palazzo è il cortile d’onore. La sua realizzazione è collegata ai lavori di sistemazione del Tevere effettuati nell’Ottocento che, con la costruzione del muraglione e della banchina, comportarono la separazione del giardino dal greto del fiume e la sua considerevole riduzione. L’attuale cancello in ferro sul retro, del 1896, nonostante il suo aspetto imponente non funse mai da ingresso principale, per via delle peculiarità urbanistiche derivanti dall’ubicazione del palazzo e, ancora oggi, ha in pratica funzione pressoché esclusivamente logistica. Risalgono alla medesima epoca le due rampe della breve scala che scende dal cancello in ferro e la sottostante fontana ornamentale; la coppia di delfini che di quest’ultima costituisce l’elemento centrale è invece senza dubbio antecedente e, con grande probabilità, proviene da una fontana un tempo installata nella zona del giardino più prossima alla riva del Tevere.
Nella realizzazione del prospetto verso il fiume Borromini tenne ancora una volta in considerazione l’assetto dell’edificio precedente, del quale aveva ereditato l’ingresso a tripla arcata al piano terreno, articolato da pilastri privi di ornamentazione. Sulle facciate a tre assi prospicienti il cortile, il primo e il secondo registro sono divisi da cornici marcapiano mentre al terzo livello non c’è soluzione di continuità nella superficie muraria tra le finestre del mezzanino e quelle sottostanti; lesene al primo piano e paraste con capitelli ionici al secondo e al terzo definiscono la membratura architettonica verticale. Questo prospetto fortemente articolato è coronato dalla loggia, che rappresenta l’elemento più scenografico del palazzo e ripropone con le sue tre arcate la disposizione del piano terreno. Sulla facciata del lato sinistro verso il giardino, sempre articolata da cornici marcapiano, lesene e paraste, si alternano al piano terra nicchie e arcate, al primo e al secondo piano nicchie e finestre; le finestre sono definite da modanature a listello e, al primo e al secondo piano, appaiono coronate da una sopracornice.
Pianoterra
Gli ambienti sul lato sinistro del pianterreno (portineria, appartamento per ospiti) hanno perduto completamente le caratteristiche architettoniche e decorative originali a causa delle trasformazioni subìte e dell’applicazione dei controsoffitti. La portineria attuale, che nel Cinquecento fungeva da ingresso, è coperta – al di sopra del controsoffitto – da una semplice volta a botte, mentre i controsoffitti dell’appartamento per ospiti e del guardaroba nascondono volte a specchio ornate da cornici in stucco sobriamente profilate dei secoli XVI-XVII e una volta a botte lunettata; sono entrambe alquanto deteriorate, a causa dei muri divisori costruiti per modificare gli ambienti e per via della mancanza di riguardo con la quale è stato applicato il controsoffitto. Lo scalone principale in stile neorinascimentale che si apre sulla sinistra dal cortile venne eretto nel XIX secolo e sostituì lo scalone cinquecentesco che lo stesso Borromini aveva invece lasciato intatto. La prima campata del corridoio al pianterreno è coperta anch’essa da una volta a botte lunettata. Il vestibolo dello scalone, articolato su ciascun lato da quattro colonne in granito lucido con capitelli toscani e da paraste, riecheggia nelle forme l’atrio e il portico. In cima alla scalinata, che in alzato occupa due piani, compare lo stemma dell’Accademia d’Ungheria in Roma e, sotto, si legge il motto della famiglia committente Medici del Vascello: Excelsior. L’anno (1896) riportato al di sopra del portale d’ingresso alla fine dello scalone indica la data di conclusione dei lavori.
La Palazzina
L’Accademia d’Ungheria in Roma svolge la sua attività in due edifici. Accanto al palazzo si apre a nord-ovest, dal cortile interno, la palazzina, il cui nucleo di partenza fu costituito dal fabbricato secondario eretto tra il 1897 e il 1900, trasformato in casa per artisti tra il 1928 e il 1930, adeguandolo alle nuove esigenze, su progetti di Jenő Faludi e Arnaldo Foschini. Il suo prospetto riecheggia la composizione della facciata del Palazzo Falconieri e, al di sopra delle paraste angolari, compaiono analogamente alcuni volatili: non si tratta di falchi, in questo caso, bensì di corvi con un anello nel becco – dallo stemma della famiglia di re Mattia Corvino, il sovrano che portò e promosse la diffusione in Ungheria dell’arte del Rinascimento italiano – realizzati da Pál Pátzay (1896-1979), borsista (1928-1930) dell’Accademia. La palazzina, modificata nei suoi spazi interni negli anni Settanta, con i suoi tredici appartamenti offre alloggio ai borsisti e agli ospiti protagonisti dei programmi culturali.
Il complesso edilizio a doppia pianta a U del palazzo e la palazzina racchiudono due cortili. Il cortile d’onore è posizionato di fronte all’ingresso principale mentre il cortile pavimentato in calcare travertino, attualmente utilizzato come parcheggio interno, si estende fra il palazzo e la palazzina. Nei cortili e nello scalone principale si notano alcune opere d’arte interessanti. Procedendo in senso cronologico, le prime sono reperti antichi, a proposito dei quali non abbiamo però informazioni su quando e come siano pervenuti in via Giulia. Il più notevole, di fronte all’ingresso della scala nobile, consiste in una figura maschile togata seduta su una sella curule: il corpo è un originale antico mentre la testa e gli arti sono integrazioni di età moderna; per le sue dimensioni, per la toga e per il sedile potrebbe trattarsi di una statua di imperatore, databile probabilmente al II secolo, esemplata sui ritratti di età Flavia (69-96). Risalgono ugualmente al II-III secolo le due figure femminili entro nicchie, nel cortile, ricomposte utilizzando parti forse in origine neanche pertinenti, con integrazioni in pietra artificiale. L’opera di epoca romana probabilmente più interessante si ammira nel cortile che si apre sulla palazzina, sul prato dietro il parcheggio: si tratta di una stele funeraria pervenuta in via Giulia certamente da Ostia Antica e appartenente a una donna di nome Iulia Procula, vissuta a cavallo tra il I e il II secolo, componente della famiglia di un ricco liberto (schiavo liberato) ostiense.
Sulla destra delle arcate che conducono al cortile d’onore il visitatore viene accolto dalla scultura intitolata Il bacio dei putti, di Miklós Ligeti (1871-1944); nel cortile d’onore, nella parte verso il Tevere, sono disposte due statue novecentesche, una delle quali raffigura San Cristoforo (1940) ed è opera di Ernő Szakál (1913-2002), borsista dell’Accademia d’Ungheria in Roma (1939-1940) divenuto in seguito celebre restauratore di monumenti; accanto, una scultura incompleta di Amerigo Tot (1909-1984) del 1966: destinata a costituire la porzione inferiore di un monumento pubblico a Roma ‒ mai realizzato ‒ in ricordo dell’assassinio di Kennedy, essa allude ai tre proiettili che colpirono il presidente americano; non è noto dove siano custodite le parti mancanti.
Piano nobile, gli ambienti dell’ala su via Giulia
L’intervento del Borromini si è conservato nella sua forma originale al primo piano, sebbene le dipinture del XVIII secolo e la ristrutturazione della fine del 19° abbiano comportato comunque profonde alterazioni. Prima di tutto è stata eliminata in entrambe le ali la doppia teoria di sale, sostituendone una con un corridoio. Sul lato verso il fiume dell’ala che corre parallela alla via Giulia, e stato realizzato il corridoio d’onore, caratterizzato da un elegante pavimento a mosaico, il cui ornato è in parte anticheggiante e in parte richiama i motivi decorativi vegetali borrominiani. Nel vestibolo è stata inserita una volta con testate di padiglione lunettata decorata da motivi che si rifanno al soffitto originale del Borromini, mentre sul tratto centrale e su quello posteriore insiste una semplice volta a botte. Le sale sono state vittime della trasformazione di impronta eclettica della fine dell’Ottocento, subendo modifiche alla disposizione interna e la distruzione della decorazione, insieme agli stucchi dei soffitti.
Il materiale utilizzato per le mostre in marmo delle porte è breccia Medicea o, con altro nome, breccia di Serravezza ed è possibile ipotizzare che siano da ricollegare tutte all’intervento borrominiano. Con l’eliminazione delle sale e il riposizionamento degli ingressi, però, anche una parte delle cornici ha subìto spostamenti: l’esempio più eloquente di ricollocazione è quello della mostra riccamente profilata del portale dell’ufficio del vicedirettore, sul lato verso il Tevere, che in origine era installata certamente nell’altra ala. La nuova destinazione d’uso delle sale ha condotto alla moltiplicazione del numero degli accessi e al conseguente impiego, alla fine del XIX secolo, di cornici in stucco marmorizzato a integrazione delle mostre mancanti.
Dallo scalone d’onore arriviamo al vestibolo del corridoio d’onore. Al di sopra dell’ingresso una targa ricorda che qui soggiornò il cardinale Gioacchino Pecci, futuro papa Leone XIII. Pecci consacrò diacono il 30 novembre 1877, in quella che era un tempo la cappella e che prima delle modifiche era situata a sinistra dell’ingresso, Antonio Pellegrini (1812-1887), già allora designato alla porpora cardinalizia. Di fronte all’ingresso principale si apriva l’accesso alla teoria di sale con affaccio sulla via, attraverso un portale con la mostra in marmo più maestosa tra quelle ideate da Borromini nel palazzo. In merito alla sua posizione primitiva l’incertezza negli studi appare notevole, soprattutto perché tale ingresso conduce attualmente a vani di servizio che ospitano i bagni e, sopra, la sala proiezioni. E tuttavia, se si considera la sistemazione borrominiana (anzi: precedente) del piano nobile, è sostanzialmente certo che questa mostra marmorea ha mantenuto la sua posizione originaria: attraversandola, gli ospiti accedevano alle sale in successione che introducevano alla stanza delle udienze del capofamiglia.
Le sale originarie sono state alterate notevolmente anche sul lato che affaccia verso la strada. Dopo i servizi, dalla parte centrale del corridoio d’onore si apre la Sala Liszt, attualmente dotata di tre ingressi, oggi sala conferenze dell’Accademia d’Ungheria in Roma, in grado di ospitare 150 persone. Nella trasformazione ottocentesca dalle sale erano stati ricavati due ambienti in stile eclettico con volta in stucco di gesso, che in seguito un paravento mobile consentiva di dividere; dagli anni Settanta essi sono stati unificati in una sala unica, le cui caratteristiche antecedenti sono denunciate dalla diversità di ornamentazione delle volte e dell’architrave che corre centralmente. La sala successiva, la Sala Fraknói, si apre dal tratto posteriore del corridoio d’onore e ospitava un tempo la biblioteca; attualmente vi si tengono i convegni scientifici organizzati dall’Accademia; il suo soffitto ligneo a cassettoni, diviso in cinque settori da architravi, risale probabilmente al XVIII-XIX secolo, mentre i lampadari sono stati prodotti dalla fabbrica Venini negli anni Sessanta in vetro di Murano, su disegno di Toni Zuccheri.
Dal punto di vista storico artistico l’elemento di maggior pregio del piano nobile è rappresentato dalle quattro sale con volte ornate di stucchi del blocco progettato dal Borromini aggiunto nel 1646-1647 al palazzo rinascimentale. I due ambienti più piccoli verso il cortile sono coperti da cupole ribassate, mentre sulle due sale verso la strada insistono volte con testate a padiglione riccamente decorate. La caratteristica che accomuna le coperture borrominiane è l’unità organica di definizione spaziale e decorazione: gli elementi decorativi centrali delle volte delle due sale che danno sulla via sono costituiti da figure emblematiche dorate, stagliate su uno sfondo dipinto, mentre quelli dell’adiacente coppia di sale verso il cortile consistono nel peculiare repertorio a motivi vegetali borrominiano, che corre lungo il bordo della cupola color crema.
La denominazione delle due sale verso la via Giulia deriva dal colore della tinteggiatura delle loro pareti. Sul soffitto del salone rosso, tre cerchi più piccoli ‒ tre corone d’alloro ‒ inclusi in un medaglione rotondo centrale generano triangoli; nel triangolo centrale un Sole riproduce un volto, con tre raggi corti e tre raggi lunghi, in una composizione che simboleggia la Trinità. Ai quattro angoli della calotta, volticelle angolari a tre vele, decorate a racemi d’acanto, richiamano un motivo a conchiglia e svolgono la funzione di pennacchi. La superficie di forma irregolare dei quattro settori rimanenti della volta mostra un’ornamentazione ad acanto simmetricamente composta e, occultati tra i racemi, l’osservatore accorto può individuare minuscole figurette di animali. Nella fascia centrale della cornice che borda la volta corre una greca, una cornice a ovoli inquadra l’imposta della copertura.
La più movimentata è la volta del cosiddetto Salone azzurro, l’ultimo sul lato verso la strada. Al centro compare anche qui un medaglione ovale, contornato nei punti di innesto alla parete da otto campi più piccoli. Il motivo decorativo centrale è costituito da uno scettro appuntato sul globo terrestre, con al vertice un occhio raggiante che tutto vede; un serpente, tenuto insieme da una corona d’alloro, si chiude a cerchio mordendosi la coda e cinge il globo e lo scettro. Le volticelle triangolari d’angolo sono costituite da nicchie, una romboidale e due semicircolari, e svolgono una funzione portante che ricorda quella del pennacchio. Cornucopie decorano le partizioni semicircolari mentre nel rombo compare raffigurata, in una ghirlanda, la scala scaccata dello stemma gentilizio dei Falconieri e, nei quattro settori bordati da superfici concave e convesse, compaiono falchi tra festoni d’alloro e di cerro. La volta venne dipinta del colore intenso dell’azzurrite che tuttora la caratterizza nel 1781, in occasione delle nozze di Costanza Falconieri con il nipote di papa Pio VI, Luigi Braschi Onesti, ma in origine doveva essere di colore bianco o crema, con moderate dorature, analogamente agli stucchi delle due sale successive e dei corridoi degli uffici.
Sotto l’aspetto iconografico la sala rossa e la sala azzurra danno più di tutte adito a congetture, tanto che negli ultimi cento anni molte ipotesi sono state formulate in merito al significato da attribuire agli stucchi dei soffitti e, partendo dalla peculiarissima visione e dall’universo formale del Borromini ‒ per molti versi sganciati dalle convenzioni della Roma barocca ‒ si è ricorsi in maniera anacronistica a innumerevoli ipotesi interpretative, per lo più del tutto prive di fondamento, dalla massoneria alla psicanalisi. Con ogni probabilità l’artista attinse con estro creativo dalle tradizioni cristiana, antica, neoplatonica, astrologica e cabalistica, traendo riferimenti da una cultura all’interno della quale egli si orientava in maniera straordinaria. Le fonti del suo universo formale sono pertanto estremamente complesse e la raccolta di emblemi di Cesare Ripa intitolata Iconologia (1593) non ne è che uno solo degli elementi. Gli studiosi hanno scritto molto sull’ermetismo di Borromini. La cultura sensibile alla magia e ai simboli del suo tempo influì naturalmente in maniera importante sull’universo delle sue forme e vi risulta evidente, in particolare, l’influenza dell’opera di Giordano Bruno, ma poiché l’artista fu sempre interessato più alle soluzioni architettoniche che non al significato dei motivi ornamentali, presumibilmente non è necessario ricorrere a interpretazioni complicate e stratificate. Il Sole nei tre cerchi che si intersecano è simbolo della Trinità, lo scettro che spunta dal globo e il serpente che lo incornicia simboleggiano il potere terreno e il suo carattere nocivo, con un messaggio a ogni modo positivo: la forza del serpente è limitata dalla corona d’alloro che circonda l’animale e dall’occhio che sormonta lo scettro e tutto osserva. In questo senso, le due sale entrano in dialogo l’una con l’altra, contrapponendo il potere celeste e i suoi valori a quelli terreni.
Le due sale più piccole verso il cortile sono realizzate in maniera tra loro assolutamente identica: il centro della cupola ribassata è scevro di decorazione e i motivi ornamentali vegetali, fiori stilizzati, rosette, palmette e gigli di dimensioni diverse, alternati, spuntano perpendicolarmente dal fregio, rivolti verso il centro; all’innesto della cupola corrono una corona di foglie di cerro nella prima sala e una ghirlanda floreale arricchita di nastri nella seconda, mentre al di sotto della copertura campi orizzontali, di forma triangolare, posizionati ai quattro angoli contengono falchi ad ali spiegate nel primo vano e fiori nel secondo. Entrambe le sale hanno conservato il colore crema originale e la doratura discreta della volta.
Gli ambienti dell’ala degli uffici
La trasformazione di fine Ottocento risparmiò gli ambienti dell’ala nord-occidentale verso il Tevere in misura forse leggermente maggiore rispetto a quelli del fronte verso la strada, e tuttavia la tinteggiatura e le decorazioni a stucco dei secoli XVIII-XIX hanno modificato profondamente l’aspetto complessivo di questa parte del palazzo (come pure al secondo piano), alterandone la facies seicentesca. Gli studi hanno dedicato relativamente scarsa attenzione al corridoio degli uffici, che oggi accoglie la segreteria dell’Accademia d’Ungheria in Roma e che conserva le tracce dei tre ambienti originari. Le volte sono tutte e tre opera del Borromini. Tra i disegni dell’artista custoditi a Vienna si conserva uno schizzo della prima delle coperture, situata dopo l’ingresso, ma il suo carattere originale risulta offuscato per via delle grottesche eseguite a secco nell’Ottocento. Le due volte nord-orientali rinviano ugualmente con decisione alla paternità borrominiana nella geometria delle partizioni e degli stucchi, basata su archi per lo più concavi, e nel repertorio formale dell’ornamentazione vegetale. Il medaglione ovale al centro della volta settentrionale è posto in una cornice a stella a otto punte di proporzioni allungate, con teste di cherubini nei triangoli di risulta. La volta dell’ambiente mediano è decorata da un rombo delimitato da archi concavi; nei triangoli di risulta delle due cornici lo stuccatore ha incluso tra i racemi d’acanto lo stemma Falconieri, lo stemma Sacchetti (ripetendolo due volte) e, nel quarto triangolo, un volto maschile che ci osserva. I profili delle incorniciature lungo la linea d’imposta delle volte sono diversi rispetto a quelli delle sale interne, qui corre infatti sotto le cornici un fregio nel quale si allineano l’acanto, le rosette, le palmette e i falchi e le figure araldiche che conosciamo dal repertorio borrominiano nel palazzo.
I tre ambienti dietro il corridoio che ospitano gli uffici (del direttore, del segretario culturale e del vicedirettore) sono coperti da volte a specchio. I soffitti risultano dipinti sostanzialmente su un fondo di stucchi del Borromini, che sono stati però integrati nel corso delle trasformazioni ottocentesche con una decorazione a secco classicista di imitazione dello stucco. L’ambiente d’angolo sul lato verso il Tevere partendo da nord-ovest, tempo camera da letto e attualmente ufficio del direttore, presenta una volta con partizioni in stucco riconducibili nella loro struttura a progetti borrominiani, ma le alterazioni, i rimaneggiamenti e soprattutto la dipintura del XVIII-XIX secolo ne occultano il carattere originario. Nel rettangolo allungato del riquadro con cornice a stucco al centro del soffitto un affresco del XVII-XVIII secolo, attribuito dagli studiosi alla cerchia di Guido Reni, raffigura la ben nota storia biblica del Sogno di Giuseppe. L’innesto della volta è marcato da una cornice con modanatura a foglie; nell’asse centrale del lato lungo dell’incorniciatura in stucco compaiono due conchiglie, entrambe con alla base una testa maschile che grida, dai lati della quale si dipartono tralci d’alloro che vanno a raccordarsi ai falchi disposti in diagonale ai quattro angoli del riquadro, mentre negli angoli della volta angeli reggicartiglio su sfondo a racemi d’acanto si ricollegano al soggetto dell’affresco centrale. Le decorazioni a secco della volta, essendo eseguite con tecnica a grisaille, ottengono il loro effetto di plasticità attraverso le varie sfumature del grigio. In questo ambiente è installato il caminetto più riccamente profilato di tutto il palazzo, riferibile con alta probabilità al Borromini per il materiale con il quale è realizzato e per le sue forme.
La stanza successiva, nel XX secolo a lungo utilizzata come salottino, ospita attualmente l’ufficio del segretario culturale e, poiché ha ben quattro porte (una delle quali oggi murata), in origine doveva svolgere probabilmente la funzione di spogliatoio. La volta decorata a stucco di tale ambiente è opera riferibile in tutti i suoi elementi al Borromini. Sotto la volta che copre il vano a pianta quadrata corre un’articolata cornice fogliata. Al centro del soffitto campeggia, all’interno di una corona d’alloro ovale racchiusa in una incorniciatura in stucco di otto segmenti concavi raccordati, a sua volta inserita in una cornice di altrettanti segmenti con le giunture sfasate, uno stemma araldico costituito dagli stemmi unificati delle famiglie Falconieri e Sacchetti, che allude al matrimonio tra Orazio Falconieri e Ottavia Sacchetti e all’alleanza tra le due famiglie; ai quattro angoli della volta, divisa in settori delimitati da un motivo a spirale continua, sono disposte quattro palmette. L’abbondante doratura e la cromia accesa della volta, che ovviamente non si devono al Borromini, sono contemporanee alla dipintura della stanza nella prima metà dell’Ottocento. Questo è l’unico ambiente nel quale si è conservata sulle pareti la pittura ottocentesca: le decorazioni a tempera su fondo verde, articolate in riquadri nei colori oro e azzurro, riprendono anche i motivi ornamentali del soffitto e seguono lo stile pittorico classicizzante a grottesche caratteristico del tempo.
La struttura di fondo della volta a specchio del terzo ambiente, sala di ricevimento del capofamiglia e attualmente ufficio del vicedirettore, rimanda parimenti al Borromini benché l’articolazione delle partizioni che suddividono la superficie sia molto più frammentata e, di conseguenza, anche più anonima. La decorazione pittorica, come in tutte le sale, risale all’Ottocento. Il dipinto al centro della volta, incluso in una cornice in stucco a rettangolo allungato, raffigura Nemesi, la dea della vendetta. Ai quattro angoli ricorrono nuovamente gli stemmi delle famiglie Falconieri e Sacchetti in scudi cuoriformi, dai quali si dipartono ramoscelli d’ulivo che si snodano tra incorniciature in stucco, riccamente profilate, in direzione dell’immagine sul soffitto, avviluppandola. Al centro dei segmenti sui quali si alza la volta compaiono paesaggi bucolici, inclusi in un medaglione ovale, sui due lati lunghi, e in un esagono allungato sui due lati brevi.
Le volte delle due sale di lettura della biblioteca e dell’economato sono state sicuramente dipinte nel corso dei lavori di trasformazione della fine del XIX secolo. Degna di nota risulta la decorazione della sala di lettura, cui si accede dal corridoio: al centro della volta è raffigurato un gruppo allegorico di giovanetti e giovanette alati, affiancato sui lati da quattro paesaggi che mostrano vedute caratteristiche della Campagna Romana, oramai scomparsa. Le due colonne in marmo dell’economato dovevano presumibilmente appartenere alla struttura dell’altare della cappella, dopo la demolizione della quale vennero trasferite in questo ambiente.
Nei locali degli uffici, nel corridoio della segreteria e, in parte, negli appartamenti per ospiti al terzo piano sono esposti numerosi dipinti e qualche statua e scultura di piccole dimensioni, donati all’istituto a partire dagli anni Sessanta dai borsisti dell’Accademia d’Ungheria in Roma. Non potendone riportare in questa sede l’elenco completo, citiamo alcune opere a puro titolo indicativo: decorano gli uffici del direttore e del vicedirettore e l’anticamera della biblioteca i dipinti di grandi dimensioni di Noémi Ferenczy; nel corridoio accolgono il visitatore quadri, fra gli altri, di József Bolgár, Zsolt Eszteri, István Haraszty, Joseph Kádár, Ferenc Lantos, Ákos Matzon, Miklós Szüts e Dezső Váli e una statua di Pál Németh.
I piani superiori e la loggia
Dobbiamo menzionare brevemente anche le particolarità degli elementi architettonici e decorativi del secondo piano poiché – similmente ai primi due livelli – vi abbondano stucchi e pitture a tempera risalenti ai secoli XVII-XIX. Questi ambienti, per la peculiare funzione del Pontificio Istituto Ecclesiastico Ungherese che vi ha sede, non sono accessibili alla visita. Delle opere d’arte legate alla storia dell’istituto – l’affresco e la via crucis della cappella, dipinti da Péter Prokopp, le vetrate di János Hajnal e il crocifisso di János Fadrusz – si tratterà nel capitolo dedicato.
Nel rispetto delle regole architettoniche dell’epoca, il secondo piano del palazzo venne realizzato in forme più modeste – dal punto di vista artistico – rispetto al piano nobile, essendo destinato ai membri di rango minore della famiglia. L’apparato ornamentale delle volte appare meno ricco di inventiva rispetto ai soffitti delle quattro sale del primo piano e vi è più evidente l’effetto delle ridipinture ottocentesche. Le riquadrature in stucco ricollegabili al Borromini, dorate e dipinte nel XIX secolo, nelle stanze collocate in corrispondenza delle sale borrominiane del primo piano, ossia i quattro ambienti dell’attuale appartamento del rettore, replicano in maniera estremamente semplificata l’apparato ornamentale delle sale sottostanti, ripetendo dappertutto gli stessi motivi e gli stessi tipi di riquadrature: cambiano solamente le proporzioni, in ragione delle differenze in pianta. La volta dell’ambiente che oggi funge da cappella, sovrastante la sala Fraknói, conserva forse nella maniera più fedele la forma originale concepita da Borromini. Una modanatura riccamente profilata e ornata da ovoli corre lungo la linea di attacco del soffitto, che presenta una cornice in stucco quadrata posta al centro della volta a specchio ribassata, con lunette, di colore bianco, articolata da partiture finemente dorate – dalle forme molto simili a quelle in stucco della seconda sala della galleria espositiva del piano terreno. Pitture mitologiche del primo Ottocento rivestono la volta a specchio lunettata della biblioteca accanto alla cappella. Un soffitto ottocentesco con stuoia di canne intonacata che, negli anni Settanta, è stato occultato da controsoffitti, copre gli ambienti successivi, suddivisi da tramezzi, delle stanze per i borsisti. Sul salotto e sul refettorio minore situati sopra gli uffici del primo piano insistono volte a specchio, doviziosamente decorate da pitture a grottesche. Le volte hanno assunto forma ottagonale, rendendo ottagonale anche il riquadro centrale, attraverso l’inserimento di fusi nel punto di giunzione delle vele.
Gli appartamenti di servizio e per gli ospiti ai due piani più alti sono stati realizzati negli anni Settanta creando, in sostituzione dei precedenti locali a uso abitativo angusti e insalubri, un ampio corridoio e una serie di alloggi al terzo piano e, al quarto, altre abitazioni affacciate su un grande vestibolo: tali appartamenti non hanno subìto da allora trasformazioni rilevanti – a eccezione delle cucine e dei servizi – e perciò custodiscono fedelmente il ricordo della cultura dell’abitare ungherese degli anni Settanta, riveduta e corretta con elementi italiani.
L’architettura di Palazzo Falconieri ha senza alcun dubbio il suo punto di forza più spettacolare, la struttura che esercita la maggiore attrattiva, nella loggia con il rialzo dell’altana, cui si accede attraverso la porta che si apre sulla destra del vano scala al quarto piano. Il Borromini la progettò sul modello della tradizionale loggia di Palazzo Farnese, anch’essa a tre archi: questa rimane però inclusa nel volume dell’edificio, mentre la loggia di Palazzo Falconieri sovrasta vistosamente la facciata in cui si apre l’ingresso principale e, in posizione dominante, si pone a coronamento del prospetto sul giardino. L’artista dovette essere particolarmente ispirato nella fase ideativa di questo lavoro, poiché non era ostacolato da nessun vincolo imposto da preesistenze. La volumetria della loggia sarebbe apparsa di gran lunga più proporzionata se rapportata a un giardino di maggiori dimensioni ‒ quale era prima degli interventi di sistemazione del fiume ‒ e alle ben più vaste ali previste in origine per l’edificio sul lato verso il Tevere. Nella sistemazione attuale essa grava infatti con una certa pesantezza sul giardino, circondato da tre ali di fabbricato. La loggia – esattamente come l’atrio d’ingresso – si dischiude in tre arcate poggianti su colonne con capitelli compositi, ai grandi pilastri tra le colonne sono addossate paraste e semicolonne. La sua terminazione, analogamente alla facciata, chiude con un articolato cornicione aggettante, sul quale è stato aggiunto alla fine del XIX secolo lo stemma dei Medici del Vascello, sostenuto da due falchi. La metà inferiore del corpo della loggia aperta in tre archi è di altezza uguale a quella del quarto livello delle ali dell’edificio; la metà superiore degli archi, la cornice che li chiude e l’altana delimitata da una balaustrata al di sopra della cornice si elevano interamente al di sopra del livello più alto del palazzo. Ai pilastrini della balaustrata dell’altana si addossano semibalaustri, seguendo il ritmo delle paraste delle arcate. Sul parapetto della balaustrata sono presenti due file di quattro teste scolpite di Giano-Giana, a costituire una decorazione unitaria basata sul contrasto tra i due mezzi volti dell’anziano e della giovane. Il materiale con il quale sono realizzate le sculture è una malta ottenuta da calcare proveniente da miniere dei dintorni, mista a materiali di origine vulcanica. Incuriosiscono i visitatori i fori sottostanti le teste, di incerta funzione. Sulla base dell’analisi condotta con una sonda si ritiene probabile l’ipotesi che fossero stati predisposti per un collegamento a canne fumarie, ma che alla fine non vennero utilizzati allo scopo. Delle due lanterne del progetto iniziale venne realizzata solamente quella settentrionale: anche da sola, essa dialoga con la lanterna di Sant’Ivo alla Sapienza, che funge da campanile ed è ben visibile dalla cima della loggia.
Si conclude degnamente la visita al Palazzo Falconieri quando, salendo la scala a chiocciola in ferro installata alla fine del XIX secolo, si giunge all’altana: dal punto più alto dell’edificio la Città Eterna si estende sotto i nostri occhi in una panoramica a 360 gradi. La vista che si apre dalla sommità di Palazzo Falconieri è unica, anche a paragone di altre vedute analoghe a Roma, poiché in virtù della sua ubicazione e dell’altezza della struttura lo sguardo spazia su tutta la città. Dall’Aventino al quartiere moderno dell’EUR e fino al Gianicolo, dal Vaticano e dalla Basilica di San Pietro a Monte Mario e Castel Sant’Angelo, dal Palazzo di Giustizia e la Chiesa Nuova a Villa Medici e fino al Pantheon, la visuale abbraccia i numerosi palazzi e chiese del centro. Quando il cielo è terso, in lontananza si delineano nettamente le propaggini occidentali degli Appennini che si elevano su Tivoli, i Monti Lucretili, e, in direzione sud, i profili delle colline di Albano.
Visitando il palazzo in tutte le sue parti e volgendo dalla loggia lo sguardo tutt’attorno sui campanili e sui tetti della Città Eterna, ci rendiamo conto delle opportunità e, insieme, delle responsabilità storiche derivanti ai rappresentanti della cultura ungherese a Roma dalla proprietà di questo meraviglioso edificio. Le istituzioni ungheresi che svolgono le loro funzioni nel Palazzo Falconieri, l’Accademia d’Ungheria in Roma e il Pontificio Istituto Ecclesiastico Ungherese, sono eredi di un passato che non soltanto ci riempie di orgoglio ma ci impegna anche per il futuro a continuare a studiare la nostra storia comune, l’ungherese e l’italiana, e a proseguire il nostro dialogo culturale.
Fonte: Antal Molnár - Tamás Tóth: Palazzo Falconieri Roma (Istituto Balassi Budapest, 2016)