Artisti dell'obiettivo. Scatti di fotografi e cineasti ungheresi - mostra fotografica

Data: 3 marzo - 14 aprile
Ora: 17:30
Luogo:  Roma
Roma, Palazzo Falconieri - Via Giulia, 1
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ARTISTI DELL'OBIETTIVO. SCATTI DI FOTOGRAFI E CINEASTI UNGHERESI.

4 marzo -14 aprile 2022

  • vernissage: 3 marzo 2022, ore 18.30 Accademia d'Ungheria in Roma 

Interverranno: György SZEGŐ direttore artistico del Műcsarnok di Budapest, curatore della mostra e Gábor GELENCSÉR storico e critico cinematografico, co-curatore della mostra

Ingresso libero fino ad esaurimento posti con Super Green Pass e maschera fpp2. 

Ritratti di artisti e fotografie di cineasti della prospettiva del tempo. La mostra del Műcsarnok di Budapest all’Accademia d’Ungheria in Roma.
L’invenzione della fotografia risale a più di 180 anni fa. Il cinematografo invece fu brevettato dai fratelli Lumière nel 1895. Qualsiasi camera adoperiamo per catturare un’immagine o girare, il processo creativo non inizia in quel momento ma ben prima. Numerosi artisti d’eccellenza sostengono che si accorgono di aver innescato il processo creativo già nei loro gesti quotidiani, seppur inconsapevolmente. Quali antefatti possegga il pensare per immagini per dar vita a un processo
creativo è un mistero incalcolabile. La mostra romana "Artisti dell'obiettivo” in realtà è frutto di altre due mostre allestite precedentemente a Budapest intitolate "Chi siamo" e "Pensare per immagini". L’attuale esposizione romana è composta dalle opere esposte in quelle due mostre. Siamo lieti di condividere con il pubblico romano tali opere,seppure con un leggero ritardo rispetto a quanto programmato per via della pandemia.
Le tre mostre rispondono in pieno al quesito posto dai curatori ancor prima dell’allestimento delle stesse, ovvero: si vedono delle tracce della storia dell’arte ungherese nei fotoritratti e negli scatti dei cineasti? Questo approccio non è solo un entusiasmante risultato antropologico-visivo, ma spero, e so, che allo stesso tempo rappresenti anche un’esperienza sensoriale.

Chi siamo – Ritratti di artisti
La mostra di ritratti di artisti intitolata Chi siamo, allestita precedentemente al Műcsarnok di Budapest, è strettamente legata all’esposizione tenutasi all’Accademia d’Ungheria in Roma, intitolata Solco acque nuove. Potremmo addirittura dire che altro non è che il proseguimento di quest’ultima. Difatti il titolo della stessa è un
chiaro riferimento a questo nesso in quanto adopera i versi di una poesia di Endre Ady, uno dei maggiori poeti ungheresi del XX secolo.
Lo stesso poeta che nell’introduzione all’album fotografico di ritratti raffiguranti scrittori e artisti del fotografo Aladár Székely scrisse quanto segue:

Mi fa piacere che questo album venga pubblicato e ancor più che l’autore sia Aladár Székely, poiché egli è capace di dirci chi siamo, persino attraverso pose che guardando da qui appaiono casuali e inutili.

La sfida della mostra Chi siamo è stata quella di rappresentare come i ritratti di artisti sono cambiati dai tempi di Aladár Székely.

La memoria individuale è strettamente legata alla funzione della memoria/oblio dell’esistenza umana, come afferma anche Susan Sontag:

Le fotografie sono forse i più misteriosi tra gli oggetti che formano, dandogli spessore, quell’ambiente che noi definiamo moderno. Esse sono in realtà esperienza catturata, e la macchina fotografica è l’arma ideale per una consapevolezza di tipo acquisitivo. Fotografare significa infatti appropriarsi di ciò che si
fotografa. Significa stabilire con il mondo una relazione particolare che dà una sensazione di conoscenza, e quindi di potere.. Tale accumulare di immagini è, allo stesso tempo, anche specchio della storia culturale di un paese o del presente e passato di un’istituzione storica.

Sul ritratto come “rispecchiamento dell’individualità umana” scrive anche Artúr Bárdos in un suo studio. Lo specchio stesso viene considerato un mezzo dotato di potere magico sin dai tempi antichi. La mitologia greca ammirava la capacità di riflettere dell’acqua, gli etruschi resero lo specchio di bronzo un oggetto rituale. Gli specchi che si ponevano nelle tombe accanto al defunto simboleggiavano il potere delle profezie, il futuro, portavano in sé notizie di nozze, nascita e morte.
Su uno degli specchi etruschi esposti al British Museum si trova il nome Hinthial, termine che in lingua etrusca ha due significati: ombra e anima. Nelle superstizioni popolari, la morte e lo specchio ebbero un legame strettissimo per i successivi millenni. Károly Kerényi ricreò il rituale etrusco e gli altri rituali orfici dell’antichità, incluso il ruolo dello specchio, con una scena in cui gli iniziati eseguivano lo smembramento di Dioniso, mentre con uno specchio nella mano cercavano di tenersi
lontani dalla morte. Proprio come fece il dio, ancora infante, che rispecchiandosi nell’acqua cercò di difendersi dall’oblio di sé. Il legame tra il fotoritratto e lo specchio che respinge l’oblio dell’individuo non necessita di ulteriori spiegazioni.
La sostanza della mostra sta nel rapporto tra la visione del mondo rappresentata attraverso gli occhi del fotografo e l’arte del modello. Nella foto si percepisce il percorso del suo autore, la sua personalità e il contesto storico? La foto è in grado di svelare il segreto del volto, la personalità del suo autore? Il materiale della mostra selezionato dal curatore András Bán intende dare delle risposte a tali quesiti.
Alla mia introduzione seguono i pensieri di Gábor Gelencsér, storico cinematografico e curatore, che ha selezionato le immagini artistiche dei cineasti che rappresentano qui l’arte cinematografica. Vorrei citare solo la dichiarazione sulle arti correlate di un cineasta eccellente di origini ungheresi, Jean Badal, cineoperatore famoso in tutto il mondo:
il regista deve saper fotografare, il cineoperatore deve saper dirigere e montare… E non solo. Anch’io ho studiato danza per quattro
anni! Ed era molto utile mentre giravo un film con Nureev, Béjart o Roland Petit!

György SZEGŐ direttore artistico del Műcsarnok di Budapest, curatore della mostra

Pensare per immagini – Foto di cineasti
Il nostro modo di vedere le immagini, il nostro “pensare per immagini” odierno è legato al fatto che ai tempi nostri la gente aveva un altro approccio ai film, in primis noi stessi. Dunque all’epoca pensavamo per immagini, volevamo definire tutto con le immagini. Così Sándor Sára (1933-2019) nel 2017 ricordò un’epoca a partire dalla quale si guarda ai film con un approccio diverso; anche perché rispetto all’epoca della nouvelle vague è cambiato il contesto culturale dell’arte cinematografica,e la produzione stessa del fare cinema. Una cosa tuttavia è rimasta immutata: tutt’oggi la maggior parte dei cineasti  “pensa per immagini”.
Nell’ambito della presente mostra vengono esposte foto di cineasti; tuttavia scatti non necessariamente legati ai loro film. L’intento è quello di capire se in base appunto alle foto esposte si riesce ad individuare il loro stile familiare grazie al cinema o alla tv, o al contrario magari si scopre un loro lato finora sconosciuto.
Alla nascita del film, non esisteva ancora il dilemma del fotografo o del cineasta poiché era piuttosto usuale che i primi cineasti fossero dei fotografi divenuti appunto registi. Alla rivoluzione avanguardista dell’arte cinematografica degli anni ’20 mancava ancora il cinema ungherese, mentre alla seconda rivoluzione era già ben presente. Mentre i capolavori degli anni ’20 provenivano da produzioni estere, negli anni ’60-’70 in Ungheria vide luce una notevole produzione cinematografica
neo-avanguardista. L’attività da fotografo era condivisa da numerosi cineasti. Tra quelli esposti alla presente mostra ve ne erano diversi che avevano dato un notevole contributo alla neo-avanguardia, tra cui ricordiamo Gábor Dobos (1947), István Jelenczki (1956) e András Szirtes (1951).
La nouvelle vague modernista dovette molto agli allievi della scuola per direttori di fotografia guidata da György Illés. Nacquero vari “duetti” tra registi-direttori della fotografia: a partire degli anni ’60 poi venne consolidata una stretta collaborazione tra István Gaál, Ferenc Kósa (1937-2018) e Sándor Sára. Questi ultimi avevano un tratto artistico comune: tutti svolgevano anche l’attività di fotografo. Sára che si era diplomato in direzione della fotografia ha ricordato in diverse interviste cosa li
aveva spinti verso la fotografia:

All’epoca l’Accademia era priva di risorse, quindi il primo anno non abbiamo avuto modo di vedere alcuna macchina da ripresa. Credo che scattare delle fotografie ci abbia giovato perché ci ha abituato ad una certa precisione. Alla fine del primo semestre nonché alla fine del primo anno, abbiamo dovuto dare un esame di étude di
fotografia; quindi in un certo senso eravamo costretti a pensare per immagini ed episodi.

Difatti non è casuale che la fotografia sia stata ben presente nel suo primo lungometraggio intitolato Feldobott kő / Pietra lanciata (1968) di ispirazione a tratti autobiografica. Una scena indimenticabile del film, divenuta poi nel tempo un aneddoto, è quella in cui il protagonista porta all’esame d’ammissione all’Accademia del Teatro e del Cinema le proprie foto in un barattolo per composte poiché non ha avuto modo di fare asciugare gli ingrandimenti. Le immagini verticali che si spostano, ondeggiano e si deformano attraverso la parete di vetro del barattolo raffigurano in un certo senso l’essenza stessa dell’immagine in movimento in un modo di esemplare bellezza.

L’esempio di István Gaál (1933-2007) con la fotografia, a conferma dei materiali pervenuti dall’epoca, diede vita ad una vera scuola. Gaál, dopo essersi diplomato in regia all’Accademia di Budapest proseguì i propri studi al Centro Sperimentale di Roma, dove successivamente tornò anche per insegnare. È proprio in quel periodo che iniziò a fotografare in modo metodico, attività che l’accompagnò per tutta la vita. Roma, l’antica cultura, la ricca tradizione di storia dell’’arte divennero importanti per Gaál, innanzitutto perché gli trasmisero la capacità di comporre, o quanto meno rafforzarono la sua sensibilità per la composizione musicale-visiva.
I suoi scatti realizzati a Roma sono pieni di ritmo, di pulsazioni sia che raffigurino delle linee astratte di scalinate o alcune figure o luoghi tipici della città. Riguardo a Gaál, ci viene in mente un’altra riflessione sulla differenza tra il fotografare e il fare cinema: fotografare richiede una singola persona, si tratta di un’attività individuale, solitaria, mentre fare cinema soprattutto nei casi dei lungometraggi è un lavoro creativo che richiede un apparato tecnico da mobilitare. Nel momento in cui un cineasta scatta delle fotografie, forse è alla ricerca del modo più autentico e contemplativo dell’attività artistica. Riscontriamo difatti questo anche
nelle foto meditative di Bence Fliegauf (1974) o Gábor Szabó (1950).

I film d’esordio del terzo membro della triade, ovvero di Ferenc Kósa, possono essere ancora associati alle sue foto, tuttavia man mano che l’orizzonte si allargò per l’autore, le sue riprese divennero sempre più autonome, dando corpo a forme sempre più riflessive e cosmiche.

I cineasti classici, scomparsi di recente e con alle spalle un buon mezzo secolo di carriera, conservano tuttora un legame con i loro colleghi contemporanei: in particolare i membri della vecchia generazione sentono l’“impronta fotografica” dei cineasti precedenti e le analogie nel loro approccio alla fotografia e al fare cinema. La dinamica dello spazio intermedio tra il concreto e l’astratto è assai ricca: c’è chi associa un significato grottesco ad un motivo concreto, vedi la bizzarra serie di  biciclette di Gábor Dobos o le immagini di Orsolya Láng (1987); o chi riempie tale spazio di contenuti spirituali, vedi le foto di Bence Fliegauf, Máté Herbai (1975), Gábor Szabó o Can Togay (1955); poi c’è chi si avvicina con le proprie foto al concept art come una coppia di immagini di Tibor Klöpfler (1953); infine c’è chi trasforma i motivi concreti iniziali in qualcosa di irriconoscibile come fa Tamás Dobos (1973) nelle sue opere calligrafiche.
Tutti i cineasti e tutte le loro foto meriterebbero un’analisi più dettagliata tuttavia per ragioni di spazio non ci è possibile. Che siano le immagini a parlare!
Gábor GELENCSÉR storico e critico cinematografico, co-curatore della mostra